Due anime convivono parimenti in questo libro: l’anima del grande giornalismo di inchiesta, fatto di indagini e studio dei fatti processuali e l’anima della grande narrativa capace di scatenare nel lettore emozioni quali rabbia, empatia, vergogna e soprattutto rivendicazione di verità e giustizia.
Il naufragio è quello noto come il naufragio del venerdì santo quando nel Canale d'Otranto alle 17.56 del 28 marzo 1997 una piccola motovedetta albanese Kater i Rades viene speronata per due volte da un’altra imbarcazione, la Sibilla, corvetta della Marina militare italiana provocandone l'affondamento.
Morirono 81 persone. Uomini, donne, bambini. Trentuno di loro avevano meno di sedici anni. Molti erano nuclei famigliari.
Leogrande restituisce la voce a chi non ne ha più: ha ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, è stato in Albania per capire e per raccontare la loro storia.
Come scrive Leogrande
Un naufragio è solo apparentemente un fatto collettivo. Lo è solo nel racconto storico dell’evento, o nella sua percezione giornalistica. Un naufragio è invece la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile.
Però lui è riuscito a narrare alla grande.
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